Il petrarchismo arcadico e la poesia del Manfredi (1953)

Il petrarchismo arcadico e la poesia del Manfredi, «Rassegna lucchese», n. 11, Lucca, novembre 1953, poi in W. Binni, L’Arcadia e il Metastasio, Firenze, La Nuova Italia, 1963.

IL PETRARCHISMO ARCADICO E LA POESIA DEL MANFREDI

Dalle due interpretazioni della tradizione letteraria italiana in funzione di una nuova poetica, del Crescimbeni e del Gravina, si può ben vedere come soprattutto petrarchismo e classicismo siano al centro degli interessi degli Arcadi: e lo si può vedere rifacendosi anche ai quadri della tradizione italiana contenuti nel Della perfetta poesia del Muratori e nel Discorso per l’apertura della colonia veronese del Maffei. Anche se poi per il classicismo si dovrà dire che la sua lezione rimane essenziale ma non cosí profonda come diverrà nel corso del Settecento e viziata dallo scambio con lo pseudoclassicismo di origine chiabreresca; e per il petrarchismo si dovrà constatare che esso fu soprattutto scuola di analisi dei sentimenti e della loro espressione in una direzione sempre piú lontana dal complesso mondo del grande modello.

In genere si può dire che il Petrarca fu efficace attraverso i petrarchisti cinquecenteschi, ed è noto come il gruppo romano dei fondatori dell’Arcadia avesse preso a suo «direttore» di buon gusto il «leggiadrissimo» Di Costanzo e come, d’altra parte, nel De disciplina poëtarum il Gravina riducesse l’esemplarità del Petrarca e dei suoi imitatori alla «elocuzione», «qua nulla purior, nulla floridior», e sconsigliasse una assoluta fedeltà al solo Petrarca. E lo stesso Foscolo nei Vestigi della storia del sonetto italiano, accennando al Manfredi e ai suoi compagni nel culto del Petrarca, li considerava «piú corretti che animati»[1], convalidando, da tutt’altro punto di vista, il giudizio in base al quale la maggior parte degli arcadi, dopo l’uso del petrarchismo contro il barocco (si pensi agli elogi del Menzini al Petrarca nell’Arte poetica), veniva interpretando la essenziale lezione petrarchesca attraverso i petrarchisti cinquecenteschi (e in verità non solo il Di Costanzo, che pur rimane il piú indicativo nella fase arcadico-barocchetta[2]) scegliendo nella tematica petrarchesca i motivi piú adatti a soluzioni idilliche e leggiadramente galanti, o riducendo alcuni motivi drammatici in pretesti di animazione melodrammatica: come il motivo della nave in cerca del porto nella tempesta, che tornerà infinite volte nelle rime arcadiche con una intonazione ben diversa da quella del testo petrarchesco e come motivo di piacevole incertezza, di melodrammatico contrasto a cui è sottinteso o reso esplicito un sostanziale lieto fine[3].

Ma, se dunque il petrarchismo arcadico è quanto mai dubbio nei suoi rapporti con il modello petrarchesco[4] e lo risente attraverso «illeggiadrimenti» e rilievi di movimento piú brioso in cui si serve piuttosto di petrarchisti di avanzato Cinquecento, e se procedendo al di là della fase crescimbeniana ancor minore appare l’attenzione al modello petrarchesco, sarebbe assurdo negare l’enorme importanza che il petrarchismo ha avuto nella reazione al secentismo prima, nella costituzione della poetica arcadica poi, soprattutto come scuola di espressione e indagine dei sentimenti sia pur volta ad idillio e melodramma piú che al tipico modulo del conflictus curarum petrarchesco. Né mancò un gruppo di arcadi della generazione crescimbeniana, che, per quanto poco riconosciuto dal centro romano (che li sentí «poco animati» come piú tardi, abbiamo visto, il Foscolo), agí a lungo sotto la piú precisa insegna petrarchesca trovando poi un teorico del petrarchismo ortodosso in Biagio Schiavo, autore del trattato Il Filalete (1735).

Si tratta del gruppo dei petrarchisti (Manfredi, Ghedini, i fratelli Zanotti), bolognesi o, come il Lazzarini, collegati con i bolognesi: gruppo le cui idealità etico-letterarie[5] trovano espressione poetica nel solo Manfredi.

Quando Eustachio Manfredi[6] morí nel 1739, tutti i verseggiatori dell’Arcadia bolognese scrissero poesie in suo onore riconoscendogli unanimamente un’eccezionale posizione di caposcuola[7] e di rinnovatore del «buon gusto», a cui rese piú tardi omaggio il Pindemonte nel suo Elogio di G.B. Spolverini ricordando la canzone Donna dagli occhi vostri come un «puro raggio di sole tra l’ombre, non ancora dileguate affatto, di quella barbarie d’artifizio che della stessa barbarie di natura è piú difficile a vincersi».

In realtà, anche se di lui si poté indicare la conversione da una prima e brevissima produzione barocca, ad opera del marchese Orsi, il rinnovamento del Manfredi e l’attività del gruppo petrarchistico bolognese corrispondono ad un periodo piú avanzato (ultimissimi anni del Seicento) rispetto all’azione dei toscani e del Maggi. Ma nell’ambiente culturale bolognese, assai vivo fra la nuova scienza entrata nello Studio e gli interessi figurativi dell’Accademia del disegno, la nuova colonia arcadica Renia (da cui poi dovevano svolgersi personalità importanti del movimento classicistico-illuministico come l’Algarotti e il Savioli) fu particolarmente notevole per il totale distacco dal barocco nella sua fedeltà al modello petrarchesco e nel particolare culto della correttezza, della purezza formale e della limpida chiarezza dei sentimenti e della loro espressione, che nel Manfredi e nei suoi amici si appoggia a una educazione di chiarezza scientifica, di razionale acutezza (l’ambiente bolognese fu scientificamente innovatore e il Martello ne tradurrà nel suo deciso attacco antiaristotelico, nei Sermoni dell’arte poetica, l’avversione al dogmatismo precettistico).

Né si pensi che tale culto del Petrarca e della sua complessità spirituale e formale sia frutto di un atteggiamento letterario senza contatti con la vita, chè anzi, proprio nel vivace ambiente bolognese, questi letterati sentirono piú d’altri il bisogno di legare questa loro esperienza di finezza e di purezza sentimentale e poetica ad una vita di relazioni e di amicizie in una città aperta ed attiva, di esprimere, in quella trama delicata di echi letterari illustri e adeguati alla loro aspirazione spirituale e poetica, una loro vita di affetti.

Sicchè in generale, per quel che riguarda la disposizione di questi arcadi bolognesi e in particolare per il Manfredi, l’unico poeta del gruppo degno di considerazione critica, andrà anche limitato il tradizionale giudizio di correttezza poco animata (e si distingua il caso limite di Domenico Lazzarini, legato con i bolognesi, che giunge nella sua fedeltà petrarchesca ad un frigido calco), dovendosi piuttosto parlare di una singolare animazione sottile e limpida senza il brio di altre esperienze arcadiche, ma non riducibile a semplice intonazione discorsiva e a freddo esercizio di recupero di una luminosità attinta in parole lontane ed estranee alla vita degli stessi autori. E se nel Ghedini e negli Zanotti l’animazione sentimentale è priva di risultati poetici, nel Manfredi, diversamente dotato di limitata ma autentica capacità poetica, il velo petrarchesco media in sé tenui, ma resistenti colori personali.

Il Manfredi[8] ebbe una breve stagione poetica (tra gli ultimissimi anni del Seicento e il primo decennio del Settecento) e mostrò la sua serietà morale e letteraria anche nel suo sapersi limitare, nel non cedere a quella tentazione del comporre versi, che per molti diveniva una convenzione indipendente da qualsiasi esigenza interna, quasi un dovere di società[9]. Il Manfredi scrisse poesie finché ebbe qualcosa da dire di suo e quando il suo piccolo nucleo ispirativo fu esaurito abbandonò anche le forme piú laterali di poesia di omaggio e di occasione che assumevano significato di esercizio minore, ma utile nel cerchio di interessi letterari e poetici suscitati e giustificati da quel centrale motivo poetico.

E coincide con questo periodo anche la sua notevole attività polemica, culminata nella lettera all’Orsi[10]. Lettera che è fra le piú interessanti tra le Lettere di vari autori in proposito delle Considerazioni, aggiunte allo scritto dell’Orsi (interessa anche per il quadro della letteratura del Seicento tra barocco e Arcadia che si pone vicino a quello del Muratori), e che insiste sulla diversità del linguaggio poetico italiano, eletto e distinto sostanzialmente dalla prosa (secondo una tesi che continua fino al Leopardi e al Carducci), da quello francese (prosa rimata) in cui i pensieri rimangono «o troppo ignudi o spogliati almeno quasi sempre di immagini e sono rivestiti di certe riflessioni che hanno del metafisico e del sottile». E capovolge cosí le accuse dei razionalisti francesi ritrovando acutezza e pensieri ingegnosi – barocchi – non solo in Voiture, ma persino in Corneille (e alla tradizione italiana petrarchesca ricollega Ronsard, acutamente rilevato nella sua alta posizione poetica), mostrando che i difetti del Seicento italiano sono un effetto del gusto non solo italiano, mentre la grande tradizione poetica italiana collegata a quella greco-latina permette ai letterati moderni di muoversi su di un terreno sicuro, di equilibrare nella loro opera «invenzione, elocuzione, disposizione» sfuggendo, diremo noi, al contenutismo o al formalismo astratti. Le osservazioni sempre acute del Manfredi sullo stile e la poesia sono fra l’altro da considerare come introduzione alla sua stessa opera poetica. Mentre, in questo breve periodo di attività poetica, il Manfredi fu consigliere autorevole di Agostino Gobbi nella compilazione della Scelta di sonetti e canzoni (Bologna, 1709), antologia critica del petrarchismo nei secoli fino all’Arcadia[11].

Nella sua produzione non molto abbondante non mancano anche poesie d’occasione che meno possono interessarci, e che pure hanno sempre un’intima compostezza e una certa freschezza di nuovo genuino colloquio con persone e avvenimenti di una concreta società osservata ed amata sia pure attraverso il velo, non sempre presente, della finzione pastorale. Anche i sonetti di carattere patriottico e politico (Per la nascita del principe di Piemonte, Per il gonfalonierato di A. Marsigli, ecc.) hanno una misura che riflette un atteggiamento sempre dignitoso e controllato, come certe ecloghe e capitoli scambiati con il Martello e con G.P. Zanotti hanno, nella loro discorsività poco impegnativa, una nitida evidenza, un equilibrio di accenti e di proporzioni che rivelano possibilità stilistiche davvero notevoli. E le stesse esercitazioni sottilissime e raffinate dei due canti Del Paradiso valgono ad indicarci, fuori dei suoi componimenti piú ispirati, l’estrema serietà del letterato, la sua padronanza di un linguaggio, di velature e rilievi sommessi, di una precisa gamma di toni delicati e spirituali.

Ma le qualità che emergono in questa produzione secondaria si organizzano e prendono valore espressivo piú intimo quando in esse si traduce la gentile nostalgia d’amore e la delicata commozione del suo spirito raffinato e pensoso, di fronte alla scomparsa di vaghe figure giovanili, all’abbandono del mondo per la vita claustrale di fanciulle vagheggiate nella loro pura freschezza o amate nel momento piú intenso della vita sentimentale del Manfredi. L’illeggiadrimento pastorale o anacreontico alla Zappi, che si avverte nel sonetto A Fille (che naturalmente piacque moltissimo in Arcadia) o che si introduce piú raramente persino in qualche sonetto per monacazione (ad esempio il sonetto Per monaca a p. 77 dell’edizione bolognese già citata), costituisce una accentuazione colorita e pericolosa, nell’equilibrio manfrediano, di quella delicata emotività di fronte a spettacoli di tenerezza gentile, di giovanile freschezza che vibra con misura squisita all’unisono con l’esile entusiasmo spirituale per ogni condizione di purezza e di intimità.

Potrà sembrare strano che l’ispirazione migliore del Manfredi trovi la sua condizione piú adatta in quel tema della monacazione che divenne poi nel corso del Settecento cosí convenzionale e fastidioso. Ma nel Manfredi questo tema, poi logorato da una consuetudine tutta esteriore, appare nuovo e fresco, reso poetico da una particolare situazione personale del poeta oltre che dalla possibilità che in esso il Manfredi trova di congiungere un sospiro di nostalgia per una fuga dal mondo di dolci figure giovanili ad una sincera nota di ammirazione e di interesse per la vita spirituale che si svolgeva in quelle candide anime femminili.

Ogni fanciulla che prende il velo suscita in lui un movimento fra rammarico, vagheggiamento (senza il minimo peso di sensualità) e partecipazione alla intimità, al mistero di quella vocazione e di quella nuova vita spirituale.

Ed è evidente che una generale disposizione dell’animo del Manfredi a commuoversi di fronte ad ogni spettacolo di morte giovanile o di abbandono del mondo da parte di fanciulle (situazioni che si rivelano omogenee e in simpatia come nella notevole canzone Per una monaca di casa Davia) venne rafforzata e precisata, come particolare attenzione e vibrazione poetica di fronte al preciso fatto della monacazione, da una vicenda personale che, all’inizio del suo breve cammino poetico, diede un valore particolare alla cerimonia del velo, traducendosi in due componimenti che sono i piú alti del canzoniere manfrediano e ritornando come piú intima sorgente di emozione, di memoria nostalgica, nelle poesie che in varie occasioni il Manfredi scrisse per la monacazione di fanciulle bolognesi.

Quella disposizione piú generale dell’animo delicato e serio del Manfredi a commuoversi e a reagire poeticamente a contatto con situazioni di melanconica purezza, e a raccogliere in una trama sobria e nitida di coerenti svolgimenti di disegno musicale quella commozione limpida, quella tenue e sicura luminosità spirituale, si trova, come dicevo, ben chiara e attuata nella canzone Per una monaca di casa Davia, in cui il poeta lega il ricordo della morte del giovinetto Davia all’abbandono del mondo da parte della sorella che prende il velo. Una eguale vibrazione sentimentale anima il discorso poetico cosí composto, ma sensibile, nella strofa che evoca il ricordo del guerriero adolescente estinto «sul fior de’ suoi verd’anni»:

Qual su la verde erbetta

giglio reciso langue,

tal cadde il giovinetto,

dal bel candido petto

vena sgorgando di purpureo sangue,

e steso in su l’arena

osò il nemico di guardarlo appena.

O in quella che, con maggiore complessità, sulla base di una simile immagine di tenue grazia, di sensibilità educata ed attenta, rivolge un saluto alla fanciulla che si fa monaca e lascia la città natale:

O verginella umile,

cura un tempo ed amore

del picciol Reno, ed or memoria acerba!

Qual colto in mezzo aprile

vago, purpureo fiore,

vedova lascia la campagna e l’erba;

ma industre mano il serba

in nuovo almo terreno,

ove le verdi fronde

tra l’aure amiche e l’onde

riveste, e d’odor mille ha l’aer pieno;

tal da questa pendice

parti, e fai di tua vista altrui felice.

Ma in questa canzone, che pure ha un generale tono poetico, una diffusa aura di gentilezza (in cui culmina piú originalmente la costante ricerca di questi petrarchisti ansiosi di raggiungere, nel loro esercizio su temi e suggerimenti petrarcheschi, una nobiltà di accento sulla direzione di sentimenti soavi e composti), non mancano parti piú convenzionali e la stessa «atroce immago» di quella delicata morte giovanile (sentita come stimolo alla vocazione monastica della fanciulla), insieme a rapidi accenni piú solenni (il giovane guerriero «tanta e sí certa speme / giunta ne l’ore estreme / per trarre Italia de’ suoi lunghi affanni»), porta in quel delicatissimo tessuto una certa stonatura, cosí come in altre poesie (ad esempio nella canzone per la morte di Vincenzo Filicaia[12]) momenti piú intimi (mai del tutto assenti nelle poesie del Manfredi)[13] sono isolati in mezzo a forme di dignitosa e sommessa eloquenza.

Ed anche sul tema della monacazione non mancano variazioni piú esterne, forme di leggiadria piú letteraria (ad esempio nel sonetto pure assai piacevole Per monaca: «Le ninfe che pei colli e le foreste»), piú precise applicazioni di particolari schemi petrarchistici e stilnovistici: come nel sonetto Per monaca a p. 92 delle Rime e in quello di p. 25 in cui, eccezionalmente, il Manfredi cede al gusto costanzesco e adatta un celebre schema di sonetto del Di Costanzo a una debole variazione amorosa.

Ma nei momenti piú ispirati quel tema raccoglie coerentemente le aspirazioni piú intime della poesia manfrediana e le varie monacazioni, per quanto atteggiate variamente, richiamano la essenziale vicenda amorosa del poeta e si arricchiscono dei suoi echi, delle sue vibrazioni nostalgiche.

Breve vicenda d’amore tutta consegnata alla poesia, in cui il Manfredi piú direttamente cantò la monacazione di Giulia Caterina Vandi, la fanciulla bolognese da lui amata.

Documenti artistici di questo momento della sua vita poetica sono la canzone Per la monaca Giulia Caterina Vandi e il sonetto che qui riporto:

Vergini, che pensose a lenti passi

da grande ufficio e pio tornar mostrate,

dipinta avendo in volto la pietate,

e piú negli occhi lagrimosi e bassi,

dov’è colei, che fra tutt’altre stassi

quasi sol di bellezza e d’onestate?

Al cui chiaro splendor l’Alme ben nate

tutte scopron le vie, d’onde al ciel vassi?

Rispondon quelle: ah non sperar piú mai

fra noi vederla; oggi il bel lume è spento

al mondo, che per lei fu lieto assai.

Su la soglia d’un chiostro ogni ornamento

sparso, e gli ostri, e le gemme al suol vedrai,

e il bel crin d’oro se ne porta il vento.

Ben si avverte qui la decisa superiorità rispetto alle esercitazioni petrarchistiche piú impersonali e il singolare proficuo uso di suggerimenti petrarcheschi (e, si noti subito, stilnovistici, ma passati attraverso una dosatura piú petrarchesca) e persino di precise parole del Petrarca («liete e pensose, accompagnate e sole», «non sperar piú vedermi in terra mai», «i lumi bei che mirar soglio spenti» e il dantesco «deh peregrini che pensosi andate» o tutta la prima quartina di tono dantesco e stilnovistico: «Voi che portate la sembianza umile / cogli occhi bassi mostrando dolore / onde venite...») come elementi di un linguaggio letterario e pur personale, animato com’è intimamente, in maniera delicata e poco vistosa, da un sentimento poetico che è inconfondibilmente manfrediano, rivissuto tutto in simpatia con le sue origini nel sentimento petrarchesco, e, rispetto al Petrarca, velato quasi in un suono piú sottile e sommesso.

Il sonetto è tutto giustificato da un movimento di stupito dolore, di mestizia intensa e misurata che lega, in una costruzione veramente esemplare di nitidezza e di articolazione chiara e animata, il giovane che domanda notizie della fanciulla amata e le fanciulle che, tornando dalla cerimonia della vocazione, gli danno l’annuncio del definitivo distacco della Vandi dalle cure mondane e la fine di ogni speranza per lui.

Qui, nei confronti della canzone, la situazione si presenta piú semplice, piú esplicitamente umana e amorosa e insieme piú capace di quadro e di movimento. Il motivo del dolore del giovane che pur non ha diretta espressione nella sua domanda ancora inconsapevole, per quanto già turbata e timorosa, è chiarito nella voce di simpatia delle fanciulle che descrivono la cerimonia del velo in toni di mestizia, quasi di compianto funebre, grave in voci giovanili e senza eccesso. E la reverenza che risuona nella domanda del poeta (la quale è certamente in tal senso la parte piú debole del sonetto, anche se quelle espressioni di ammirazione – del resto cosí misurate e intonate – van sentite nella loro delicata tensione fra amorosa e spirituale) non turba il prevalente sentimento di rammarico senza chiari compensi (come invece sarà nella canzone tanto piú complessa), non toglie al sonetto il suo carattere di compianto e di lamento di un amore deluso, mentre però si intona bene alla misura, alla educatissima compostezza dei sentimenti che non ammettono la minima recriminazione, e risolvono la tristezza e il rammarico cosí inequivoci in un sospiro malinconico, in una visione d’improvvisa desolazione, disacerbata delle sue punte piú aspre nel patetico ed elegantissimo movimento finale.

E d’altra parte il sonetto si presenta qui in forma precisa di scena e dialogo, di movimento perfetto che ci conduce dal quadro iniziale delle fanciulle che entrano meste e composte (ogni particolare del sonetto concorre a questa impressione generale di tensione intima e di squisita compostezza) attraverso la risposta al quadro finale cosí continuo, preciso e suggestivo, in cui si vedono gli elementi essenziali della cerimonia avvenuta. Esempio veramente notevole di chiarezza e animazione (e in questo senso uno dei risultati migliori, su questa direzione, del gusto arcadico), di movimento e di dialogo. E si noti ancora la particolare bellezza della prima terzina in cui ai due interrogativi simmetrici e sospesi della domanda risponde un periodo tanto piú mosso e malinconicamente vibrante nei suoi enjambements senza durezza e senza enfasi. La «correttezza», la chiarezza ed evidenza hanno qui un valore piú che retorico, e, cosí calde di una ispirazione precisa e sicura, sono davvero qualità di stile corrispondenti dall’intimo ad una spiritualità limpida e sensibile che ha superato definitivamente, e non solo per polemica, la condizione barocca.

Se il sonetto, che certo colpisce con la sua maggiore evidenza, con la sua continuità cosí riuscita, e con la presenza di un sentimento cosí delicato, ma cosí preciso, ci ha già condotti ad indicare quale sia la funzione del petrarchismo (e, attraverso la mediazione petrarchesca, di tanti motivi e immagini stilnovistiche) nella poesia del Manfredi – linguaggio poetico sentito in simpatia con l’animo petrarchesco nella sua condizione di gentilezza spirituale e usato come mezzo di espressione suggestiva di nuovi personali sentimenti –, ciò appare anche nella lettura della celebre canzone Per la monaca Giulia Caterina Vandi, in cui pure la fedeltà al modello petrarchesco va intesa con larghezza e secondo una precisazione che credo necessaria quando si parla del Manfredi.

Egli è come Ghedini o Lazzarini un fedele del Petrarca («cigno gentil ch’ogni paraggio esclude», come diceva il Menzini) ed è soprattutto alla poesia del Petrarca che egli guarda seguendone l’ispirazione amorosa spirituale, nelle possibili forme piú delicate e sommesse, lievemente malinconiche e pensose (ed anche in lui c’è minor senso del conflictus curarum petrarchesco). Ma insieme il Manfredi considera nell’angolo della sua attenzione anche il linguaggio stilnovistico e certi sviluppi petrarchistici di tradizione neoplatonica piú omogenei alla sua spiritualità, che pur rifugge da forme rigide e fredde. E proprio per la canzone di cui parliamo, appare fondamentale – accanto all’aspirazione di recuperare nella propria poesia toni e movenze petrarchesche, di parlare attraverso parole che portino l’eco suggestiva del Petrarca – l’attenzione rivolta a schemi di poesia amorosa secondo la tradizione petrarchistica cinquecentesca che assimilava fra i propri esempi la canzone dottrinale del Cavalcanti accanto alla canzone del Benivieni e ad esercizi di Lorenzo. Vedremo anzi come questa attenzione non solo ad elementi particolari, ma ad un generale tono petrarchistico-platonico, porti un motivo essenziale a comprendere la complessa natura della canzone.

La canzone, scritta nell’anno 1700, dopo la monacazione della fanciulla amata[14], è infatti nata su di uno stato d’animo assai piú complesso di quello da cui ebbe origine il sonetto e dal confluire, insieme a motivi di amore e di rimpianto (la situazione dell’innamorato che vede troncata ogni sua speranza), di motivi piú raffinati e sottili di ammirazione e amore spirituale, di esaltazione per una poesia cosí nuova ed alta nel proprio tempo e ricollegata ad una tradizione cosí nobile ed eletta.

Vi è dunque, sulla base di una storia intima intensamente sentita (quella espressa piú direttamente nel sonetto), una complessa e pur distinta e limpida situazione poetica, in cui la rievocazione e il sospiro dell’amore piú mondano, dominati e depurati da ogni minimo peso di turbamento sensuale (anche in tal senso il Manfredi appare al sommo della ricerca della prima Arcadia di sentimento amoroso e casto, di rifiuto della «lascivia» barocca in senso non solo stilistico), si fondono con un impeto di ammirazione per l’altezza dell’anima amata, che, nella sua decisione (pur negativa per la felicità del poeta), ha dimostrato la sua natura superiore, e con un particolare entusiasmo di poeta che si compiace di cantare cose alte e nuove, di rivelare le qualità celesti della donna, da tempo scoperte proprio mercé l’amore che gli permise di vedere con piú chiarezza in quell’animo. Sicché lo stesso entusiasmo del cantore di amor platonico (che porta con sé qualche maggior monotonia e astrattezza dottrinale) si ricollega al sentimento fondamentale di amore, di contenuto rimpianto, di ammirazione e simpatia per quella vita intima cosí in accordo con la bellezza della donna amata: e lo stesso insistere sulla propria capacità di cantare questo alto soggetto e di aver inteso, diversamente da ogni altro uomo, che cosa celasse l’animo della Vandi, è ancora in qualche modo un compenso d’amore, una possibilità di essere lui solo vicino alla donna, lui che solo, mercé l’amore, l’ha profondamente compresa.

Mi sembra che la comprensione di questa canzone, cosí notevole anche se non priva di momenti piú scialbi legati al prevalere piú autonomo dell’entusiasmo dottrinale-amoroso, richieda la considerazione di questa situazione complessa in tutti i suoi motivi cosí collegati e circolanti nell’accordo essenziale di amore ed esaltazione spirituale che scambievolmente si prestano il loro calore e il loro entusiasmo dentro una costante chiarezza, una misura, una finezza d’animo che alleggeriscono ogni impeto e lo intonano a questo ritmo continuo, mosso, sollecitato delicatamente da successivi spunti poetici. E se la storia della donna, dalla sua creazione alla sua monacazione, rivista come vera e propria ascensione al cielo, costituisce la linea piú evidente nello svolgimento della canzone, in realtà non credo utile accentuare troppo questi caratteri di storia psicologica imperniata nei successivi stati spirituali della donna come protagonista della canzone: quella storia è tutt’una con la storia dell’animo del poeta[15] e mi pare che sia piuttosto da battere sulla complessità del suo animo e sulla trepida vibrazione nel narrarci ciò che in lui avviene nel rievocare la vicenda terrena e celeste della fanciulla amata.

Insomma se la storia della Vandi costituisce il chiaro sostegno della canzone nel suo svolgersi (ben diversa da tante canzoni amorose simili, costruite a variazioni su di un unico tema di elogio) e permette al poeta di scandire le sue strofe con continuità, con sviluppo e con una certa tensione di progressiva ascesa, non è tanto un personaggio poetico (la donna seguita con amore e ammirazione nella sua via di perfezione) che spicca e si costruisce, quanto è piuttosto dominante la vicenda complessa dell’animo del poeta, che rievoca la vita della donna amata nella sua interpretazione, nella sua comprensione, nel suo amore, nel suo stesso compiacimento della poesia che supera la stessa occasione da cui nasce e costituisce quasi il bando piú generale di una poesia amorosa e spirituale, erede di una grande tradizione, rinnovatrice di un senso intimo della poesia contro la «deviazione» secentistica[16].

La storia della donna rimane cosí al centro della canzone, ma va sentita nel valore piú complesso dei sentimenti che vivono nell’animo del poeta, da cui essa stessa trae il tono delle sue varie fasi, e di cui essa costituisce la concreta manifestazione fantastica: anche essa attuata però in quella gamma di immagini lievi e poco colorite, delicate e senza peso e volume, che abbiamo già notato nella canzone Per una monaca di casa Davia. Tutto l’animo del Manfredi è presente nella canzone che rappresenta senza dubbio lo sforzo poetico maggiore del capo dell’Arcadia bolognese e che ammette una lettura particolareggiata e sul piano di un risultato poetico, non di semplice velleità come troppo spesso accade con altri rimatori del periodo arcadico.

La canzone si apre con una prima strofa in cui il poeta si fa rivelatore della potenziale vocazione al chiostro della donna, che agli altri uomini non appariva dapprima manifesta nella sua bellezza, nella sua luce «altera onesta», nei suoi «santi lumi accesi». Lui solo ha compreso tale vocazione per mezzo del suo amore (mercé di chi innalzommi) che ora gli permette di cantare cose che lui solo sa e che gli altri uomini ignorano.

Questa posizione di orgoglio e di fervore (ammirazione per la donna e orgoglio di esserle particolarmente vicino fra tutti gli uomini nel momento della sua decisione, per la propria comprensione del suo animo dovuta ad amore) si manifesta con decisione calma, con lieve impeto senza retorica negli ultimi versi, a chiudere questa strofa in cui si pongono i motivi essenziali della canzone, che poi si svolgeranno in movimenti piú scanditi secondo un ritmo temporale e un progressivo accendersi della commozione spirituale, anche se questa non sempre è perfettamente realizzata in un effettivo aumento di tensione poetica. La storia della fanciulla nasce dall’interpretazione che del suo animo il poeta ha saputo dare mercé l’aiuto di amore che lo ha innalzato a tanta altezza, e in tal senso la prima strofa è la salda base di tutta la canzone, come è anche modello delle altre strofe, inizio esemplare di un discorso poetico cosí intimo, coerente, intonato ad un lieve e saldo canto interno, ad un passo dell’animo fervido e sobrio nel suo ricreare una vicenda di sentimenti di dimensioni di purezza poetica, di lucido sogno. Discorso poetico che richiede anche lettori attenti e capaci di ricreare la condizione particolare di quest’animo poetico e la singolare impostazione del linguaggio cosí letterario e cosí intimamente ravvivato da questo delicato fervore che contemporaneamente si giova e si arricchisce delle suggestioni di purezza e fierezza, di ardore e di tenero canto che esso ridesta in parole che ne furono già pervase in altri testi poetici illustri.

Il movimento di immedesimazione del poeta con l’amore che lo ispira e di rivelazione di verità «al vulgo ignaro ascose» (movimento tipico della tradizione di poesia amorosa platonica) comunica la sua forza di annuncio intimo e solenne all’inizio della seconda strofa, cosí nitido e deciso nella rievocazione del complesso lavoro, con il quale la natura e l’amore dettero corpo all’anima della donna: la cui discesa dal cielo è finalmente realizzata in poesia con una leggerezza di movimento e di accento, con una coerenza di suoni delicati, senza asprezza, con un fluire di linee agevole, ma non privo di un’intima sospensione pensosa che lo rende tanto piú eletto ed efficace:

la qual, pronta e leggera

di mano a Dio lui ringraziando uscia,

e raccogliea per via,

di questa spera discendendo in quella,

ciò ch’arde di piú puro in ogni stella.

Quell’ardore e quella purezza cosí delicatamente vibranti in quest’ultimo verso e cosí rinnovati nella ripresa di tutta una poesia dell’ardore e della luce tipica del petrarchismo platonico, trovano la loro espressione piú sensibile e piú poeticamente viva nella terza strofa, in cui il poeta, dopo una lieve enfasi iniziale, esprime l’animazione della natura alla viva presenza della bella donna. Qui la luminosità, la fresca, sottile sensibilità visiva che si può notare anche nella canzone Per una monaca di casa Davia, traduce nella sicura trama di vaghi echi amorosi, di lieve vagheggiamento della bellezza corporea, di soave estasi visiva, quel fervore amoroso spirituale che qui passa da toni di attenuato ardore platonico alle sottili e nitide gradazioni di colori sensibili e trasparenti:

... e in ciò dire ogni stelo

si fea piú verde e vago,

e l’aer piú sereno e piú giocondo.

Felice il suol, cui il pondo

premea del bel pié bianco,

o del giovenil fianco,

o percotea lo sfavillar degli occhi,

ch’ivi i fior visti o tocchi,

intendean lor bellezza, e che que’ rai

movean piú d’alto, che dal sole assai!

Nella quarta strofa si rivelano gli effetti della donna non piú sulla natura (animata dalla sua presenza sino alla miracolosa capacità dei fiori di intendere la bellezza e l’origine divina degli sguardi luminosi della Vandi), ma sugli uomini, la cui trepidazione fra dolcezza e pena sottile anima la breve scena: nella quale la condizione di calma superiore della donna potrebbe finire per diventare, se rimasta sola, contemplata e distaccata, un motivo di monotonia e di rigidezza quale in qualche modo si avverte nel finale della strofa con la esortazione di Giulia, concepita come nuova Beatrice, ad una via di perfezione spirituale. Sempre animata anche in questi toni piú oratori e «dottrinali», rilevati nella serietà del linguaggio sempre coerente al centro migliore di questa ispirazione, la canzone non manca di zone piú opache, come nel suo insieme non si può escludere un certo pallore non sempre illuminato da vibrazioni di piú intima luminosità.

Nella strofa quinta, in cui il poeta ci conduce piú al centro della sua storia sentimentale (senza la quale non esisterebbe poeticamente la storia della Vandi), il pericolo di monotonia è superato ed anzi il fervore gentile del poeta che amore ha reso insieme innamorato e consapevole della natura celeste della donna (sicché il suo atteggiamento di fronte alla Vandi è diverso da quello degli altri uomini incerti fra dolcezza e pena, perché non illuminati dall’amore), trova in questa strofa un’espressione di particolare finezza nel colloquio complesso e perfettamente delineato del poeta con Amore – su di un piglio piú deciso[17] – e con gli occhi della donna su di una piega piú blanda e tenera.

Qual io mi fessi allora

quando il leggiadro aspetto

pien di sua luce agli occhi miei s’offerse,

Amor, tu ’l sai...

Ma piú d’Amore ancora

ben voi stesse il sapete,

luci beate e liete...

Piú debole ed opaca la sesta strofa (in cui compare persino un verso, l’ultimo, meno sicuro nella dosatura altrove perfetta di suoni), che rivela una certa fatica derivata da un movimento piú difficile e, tutto sommato, meno intimamente legato ai motivi centrali della canzone: il poeta non ha saputo seguire l’indicazione di quei «soavi innamorati sguardi» che lo chiamavano alla perfezione religiosa e mostravano come la perfezione della donna avesse come suo vero termine la vita monastica e si è attardato nella contemplazione della bellezza della donna. Il che in realtà è in qualche contraddizione con l’impeto orgoglioso del poeta che sa di aver compreso fin dal primo momento la perfezione della donna e la sua superiore destinazione, anche se si può distinguere (ma la distinzione stessa porta in questa strofa appunto qualcosa di piú faticoso) tra la capacità di comprensione che il poeta ha avuto e l’inadeguatezza della sua volontà, del suo animo che ha pensato:

qui di posar ne giova,

senza seguir la scorta del bel raggio,

qual chi per buon soggiorno obblia il viaggio.

Ma soprattutto questa strofa serve da base di slancio per l’ultima, in cui il ritmo riacquista un fervore piú intimo e tutto un movimento ascensionale, sempre piú intenso, anche se sempre misurato e dominato, coincide con l’apoteosi della donna la cui monacazione è senz’altro immaginata come ascensione al cielo.

Vedete or come accesa

d’alme faville, e nove

costei corre a compir l’alto disegno!

Vedi, Amor, quanta in lei dolcezza piove,

qual si fa il Paradiso, e qual ne resta

il basso mondo, che di lei fu indegno!

Qual luogo alto le appresta,

e in lei dal cielo ogni pupilla intesa

confortarla a l’impresa;

odi gli spirti casti

gridarle: assai tardasti;

ascendi, o fra di noi tanto aspettata,

felice alma ben nata.

Si volge ella a dir pur, ch’altri la siegua,

poi si mesce fra i lampi, e si dilegua.

Canzon, se d’ardir troppo alcun ti sgrida,

digli che a te non creda,

ma venga, in fin che puote egli, e la veda.

Uomini e Amore sono chiamati a vedere quest’ultima parte della vita della donna, a udire gli spiriti casti di altre fanciulle che han preso il velo, le quali sollecitano la sua ascensione: e queste forme di esortazione: «vedete», «vedi», «vedi», «odi», non rimangono nella simmetria piú esterna e retorica delle canzoni filicaiane, ma nascono naturali nel movimento che si arricchisce e si svolge, come tutt’altro che esteriore e puramente scenografico è quell’ultimo gesto della donna che:

si volge ella a dir pur ch’altri la siegua,

poi si mesce fra i lampi, e si dilegua...

E il congedo cosí nitido e lieve ha pure nella sua apparente genericità un’eco dell’amore, che mentre aiuta il poeta a comprendere l’altezza della decisione della donna, porta anche un moto di nostalgia per quella bellezza che si allontana, per quel «piacere degli occhi» cosí essenziale anche nella tradizione petrarchistica platonica. Per cui l’invito a chi non si fida di quanto la canzone dice, di venire a vedere la donna «infin che puote egli», ha in sé un sospiro di nostalgia: fra poco la donna non sarà piú visibile, passata ad altro chiostro lontano.

La canzone per la Vandi, se non è il capolavoro che vi videro gli uomini del Settecento (e comunque si può bene spiegare la loro ammirazione, specie fuori dal piú preciso momento crescimbeniano, fanatico di moduli leggiadri e diffidente di fronte a un’eccessiva castità di stile), è certo uno dei documenti poetici piú notevoli del primo Settecento, un’alta prova di stile animata da una sottile ispirazione (con coefficienti letterari ben chiari, come l’elemento dottrinale amoroso pur cosí essenziale) in una condizione di Arcadia piú fedele al modello petrarchesco (e in genere ai modelli stilnolvinistici e trecenteschi), piú interiormente attenta all’analisi e all’espressione di sentimenti raffinati e sinceri.


1 V. Foscolo, Opere, ed. naz., VIII, p. 143. Ma quanto al Manfredi, negli appunti della lezione XI delle Epoche della lingua italiana, in Opere, ed. naz., XI, p. I, p. 255, parlando del fallimento poetico degli Arcadi diceva: «Le sole eccezioni forse sono un grande matematico che sortí bastante immaginazione per essere un poeta se non grande certamente neanche mediocre e una donna Faustina Maratti Zappi...».

2 In seguito l’esempio del Di Costanzo tramonta e del resto è chiaro che anche nel momento della sua maggior fortuna esso fu soprattutto l’indicazione di uno schema di una linea piú rilevata specie verso il finale ma non cosí intimamente animata come sarà nello Zappi e nella fase arcadico-rococò.

3 F.L. Mannucci nell’opuscolo Petrarca in Arcadia, Genova 1905, notata la lontananza dallo spirito petrarchesco delle imitazioni arcadiche, riporta con abbondanza precisi luoghi e motivi del Canzoniere ripresi nelle Rime degli Arcadi. Recentemente è uscito uno studio di scarsissimo valore di E. Sala Di Felice, Il Petrarca in Arcadia, Palermo 1959.

4 Sul Petrarca non erano mancate polemiche dovute a posizioni di culto (almeno teorico) piú rigido e posizioni piú critiche e libere: come avviene nei riguardi della Perfetta poesia del Muratori (che precisò la sua ammirazione condizionata nelle Osservazioni), a cui tre arcadi della colonia Ligustica (in realtà assai liberi poi nella loro pratica poetica) opposero una retorica Difesa delle tre canzoni degli occhi e di alcuni sonetti e vari passi delle Rime di F. Petrarca, di G.B. Casaregi, G.T. Canevari e A. Tommasi, Lucca 1709.

5 Non si creda che tale culto del Petrarca non ammettesse nell’opera di questi letterati oscillazioni tra il comporre centonesco del Lazzarini e maniere di leggiadria come nel Ghedini (si veda in proposito Rime degli Arcadi, III, p. 149). Sullo Schiavo essenziale è lo studio del Croce, Un devoto del Petrarca, Biagio Schiavo, in Letteratura italiana del Settecento.

6 Era nato nel 1674 a Bologna, dove passò tutta la sua vita di scienziato e di letterato, ad eccezione di alcuni viaggi a Roma, a Lucca e in Romagna, chiamato come famoso ingegnere ad infrenare fiumi. Sul Manfredi e sui petrarchisti bolognesi si può vedere il volume ricco di notizie di D. Provenzal, I riformatori della bella letteratura italiana, Rocca San Casciano, 1900. Per la biografia del Manfredi si veda la Vita premessa all’edizione dei Versi e prose, Bologna 1760.

7 Le composizioni in suo onore si trovano nella edizione bolognese citata dei suoi versi e prose.

8 Sul Manfredi poeta importanti le pagine di F. Foffano (Rime scelte di E.M., Reggio Emilia, 1888; La lirica amorosa del secolo XVIII, in «Rassegna Nazionale», 1909), di A. Salza in La Lirica (Vallardi, Milano, s.d.), di H. Bédarida (E.M. in L’Italie au XVIII siècle in «Études italiennes», 1927, ora in À travers trois siècles de littérature italienne, Paris, 1957), e soprattutto di B. Croce (Il petrarchismo settecentesco e una canzone di E.M., in Letteratura italiana del Settecento cit.). Si veda ora il fine profilo di M. Fubini nella introduzione ai Lirici del Settecento cit., e l’articolo di E. Melli, La poesia di E. Manfredi, in «Convivium», 1958, p. 280 ss., e dello stesso Cinque sonetti inediti del Manfredi, in «Strenna storica bolognese», 1961, p. 305 ss. (cfr. le mie schede in «La Rassegna della letteratura italiana», 1958, p. 301, e 1962, p. 164).

9 Il Manfredi ebbe un disprezzo, non molto comune in Arcadia, per gli improvvisatori e declamatori e nel suo viaggio a Roma nel 1715 non mancò di notare con ironia che là vi erano «piú poeti che mosche» (Lettera a G.P. Zanotti, Roma, 18 maggio 1715).

10 La polemica di Gian Gioseffo Orsi contro i giudizi del Bouhours sulla letteratura italiana nella sua opera De la manière de bien penser dans les ouvrages de l’esprit costituisce un momento importante nella storia dell’Arcadia perché nella reazione agli attacchi del boileauismo oltre all’orgoglio nazionale (con diverse sfumature di nazionalismo letterario, da quelle piú esagerate del Maffei a quelle equilibrate del Muratori e del Manfredi) si trovano gli effetti di un vero e proprio esame di coscienza dei letterati italiani, che avendo rifiutato il secentismo ricercano insieme le ragioni della loro tradizione piú alta, discutono su ragione e fantasia, mirabile e verisimile, adoperando l’arma dei francesi (il razionalismo) a meglio motivare la loro difesa dei diritti – se pur limitati – della fantasia. I vari contributi di arcadi nella polemica si trovano nella edizione di Modena (1735) delle Considerazioni del marchese G.G. Orsi ecc.

11 La spazio maggiore è naturalmente concesso al Petrarca e fra i cinquecentisti al Bembo (non al Di Costanzo), in accordo con il tipico amore di «castità», di nobiltà affettuosa, di gentilezza per cui il Gobbi e il Manfredi daranno posto notevole anche alla Colonna e ai petrarchisti piú fedeli e «spirituali». L’antologia bolognese ha una terza parte contemporanea. Nello stesso anno, e dunque prima delle Rime degli Arcadi, usciva la prima parte delle Rime scelte di poeti illustri de’ nostri tempi a cura del Lippi, Lucca.

12 L’omaggio commosso che il Manfredi rese al Filicaia non manca di indicarci un contatto non casuale fra il vecchio letterato toscano e il capo della colonia Renia nel comune ideale di fedeltà petrarchesca e in una vicinanza (si pensi al Filicaia dei sonetti in morte di Camilla Filicaia) di delicata discorsività poetica, di castità sentimentale e formale, tanto piú animata ed intima però nel Manfredi.

13 Cosí anche in sonetti di tipica convenzione accademica come quello sul problema (proposto dall’Accademia dei Gelati) «se sia piú malagevole mantenersi l’altrui amore che acquistarselo» il disegno nitidissimo del cacciatore e dell’augellino (che piacque al Croce) è tutto mosso da un intimo piacere non solo di descrizione minuta, ma anche (e qui il Manfredi era in accordo con le aspirazioni piú genuine dell’Arcadia) di diretta conquista, nella parola, di una minuta, sicura realtà.

14 Dice G.P. Zanotti che questi versi «doveano esser l’ultima espressione di un amante ingegnoso», d’un amore «durato molt’anni» e che «appena ebbe termine quand’ella si monacò».

15 Il Foffano mise in rilievo il legame tra la storia della donna e quella dell’animo del poeta («storia di un’anima creata da Dio, perché con la sua bellezza guidi gli uomini alla contemplazione della bellezza infinita, ed è insieme la storia dell’animo del poeta ecc.», art. cit., p. 743) e il Croce: «Il poeta ha sentito e inteso quello che si è adempiuto nella eletta creatura e quel che di riflesso è avvenuto e avviene in lui» (Letteratura italiana del Settecento cit., p. 102).

16 Questa canzone, viva perché genuina espressione di uno stato d’animo poetico preciso, ha anche un valore letterario notevole come prova di poesia completamente fuori dei termini barocchi (il Manfredi sentiva particolare antipatia per il barocco come forma veramente lontana dal suo spirito equilibrato, chiarissimo, generalmente e puntualmente delicato), come esempio di una vera ricostituzione del discorso poetico sulla base di una rinnovata riuscita attenzione non solo alla realtà naturale, ma a quella dell’animo e delle sue vicende, ascoltate con tanta finezza.

17 E qui il Manfredi utilizzava per questa mossa piú decisa versi danteschi del Paradiso (I, vv. 73-75).